Immigrati italiani massacrati in Francia
Immigrati italiani massacrati in Francia

C’è anche il 31enne Lorenzo Rolando, nato ad Altare, nel savonese, tra le vittime del massacro di immigrati italiani avvenuto nell’agosto del 1893 a Aigues-Mortes, nella Camargue francese. Un eccidio che insegna che un tempo, i migranti eravamo noi.

Pietre enormi vengono lanciate da ogni lato, si è costretti a lasciare sul suolo vittime indifese che dei forsennati con indicibile efferatezza finiranno a randellate ”. Impossibile fuggire o ripararsi dai colpi. La sola via di scampo è rappresentata da una casa, protetta da una cancellata di ferro. Viene chiesto al proprietario di aprire. Quando ci si dispone ad entrare, quest’ultimo, intimidito dalla folla, chiude improvvisamente il cancello. “Allora ci fu un vero e proprio massacro! Come bestie portate al macello, gli italiani si adagiano sulla strada, sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando ad ogni passo uno dei loro ”.

È uno dei momenti del terribile 17 agosto 1893 di Aigues-Mortes. Le parole virgolettate sono quelle del giudice istruttore che si occupò del processo. Diamo ora la parola al corrispondente di un quotidiano locale che un’ora dopo si trovava a poche centinaia di metri da lì.
Ho appena assistito a una scena di un’efferatezza senza precedenti e indegna di un popolo civile. Verso le due e mezza del pomeriggio in piena piazza San Luigi, un povero disgraziato è stato assalito da una banda armata di randelli, ed è stato letteralmente massacrato. I bruti lo hanno lasciato solo dopo avergli ridotto il cranio in poltiglia”.
E così via fino al tardivo arrivo della truppa che metteva fine ad un eccidio che era costato la vita a dieci operai italiani e il ferimento di un centinaio di essi, alcuni dei quali resteranno menomati per tutta la loro esistenza. Tutti – la storiografia, sia francese che italiana, non ha dubbi in proposito – furono vittime innocenti della violenza xenofoba.
Si trattava, in maggioranza, di giovani contadini che emigravano temporaneamente a causa della Grande Depressione, che in quegli anni colpiva con estrema violenza le campagne italiane, e del processo di ristrutturazione che vi si andava affermando.
Il fenomeno era, naturalmente, più accentuato nelle zone in cui prevalente era l’agricoltura di montagna e, a maggior ragione, nei territori dell’arco alpino dove all’impoverimento economico si associava la prossimità territoriale (che favoriva il cosiddetto “assorbimento”): buona parte degli uomini validi emigrava per alcuni mesi, lasciando al resto della famiglia la cura della conduzione della terra. Un fenomeno migratorio che risaliva all’ancien régime e che nel corso dell’Ottocento aveva largamente perduto la caratteristica tradizionale della stagionalità assumendo, anche a causa della dilatazione delle varie articolazioni del mercato del lavoro francese, piuttosto quella della temporaneità.
Ci troviamo in un periodo in cui i due Paesi si guardano in cagnesco. In Francia si parla di “ingratitudine” di una nazione che ha potuto raggiungere la propria unità grazie ad essa. In Italia, invece, c’è chi è convinto che la competizione per il controllo del Mediterraneo faccia sì che i due Paesi siano “nemici naturali”. L’occupazione francese della Tunisia, la stipulazione della Triplice Alleanza e gli scatti d’orgoglio nazionale – immancabilmente diretti oltralpe – del primo ministero Crispi avvelenano i rapporti. Nel 1888, la tensione raggiunge la fase più acuta. La parola guerra risuona a più riprese mentre falliscono i negoziati per il rinnovo del trattato commerciale. Le ostilità vengono ristrette al terreno doganale, ma è guerra e, come afferma Crispi alla Camera, anche nelle guerre economiche ci sono morti e feriti. È musica per le orecchie dei protezionisti e dei protetti dei due Paesi. L’interscambio precipita verso il basso e, contestualmente, si accentua la conflittualità sui mercati finanziari. Gli stati maggiori, inoltre, non se ne stanno con le mani in mano : proprio nel 1888, per esempio, la Francia crea gli « Chasseurs Alpins » con lo scopo di controbilanciare la minaccia rappresentata dagli Alpini che l’Italia schiera dall’altra parte della frontiera. La politica internazionale, comunque, ci fornisce solo la cornice. Le cause dell’eccidio sono da ricercare altrove.
Aigues-Mortes, posta ai limiti della Camargue, è, all’epoca, una cittadina dall’economia sonnolenta. Si risveglia solo ad agosto quando si svolge la raccolta del sale prodotto nelle paludi di Peccais. Arrivano allora più di mille stagionali (la metà, circa, dei quali italiani) che si contendono un lavoro che in un paio di settimane (da allungare se possibile con la raccolta dell’uva nei vigneti della zona) può far guadagnare, come dichiara uno di essi, di che vestirsi e calzarsi decentemente per tutto l’anno. Un lavoro durissimo: “Chau aver tuat paire e maire per anar a Pecais” (Bisognerebbe aver ucciso il padre e la madre per andare a Peccais) afferma in occitano un canto operaio che così si conclude “Se la Repu¬bblica sabiá la vida que nos fan faire, farián brular Peccais, Christ e mai cure baile.” (Se la Repubblica conoscesse la vita che ci fanno fare, farebbe bruciare Peccais e Cristo e manderebbe al diavolo il caporale). L’occitano, non a caso, è quello delle Cévennes, la vicina regione montagnosa da cui provengono la maggioranza degli stagionali francesi. Si tratta di una vecchia tradizione, se è vero quanto racconta un viaggiatore svizzero di fine Cinquecento: «Nel mese di agosto, centinaia di cévenols vengono a lavorare assieme alla gente del posto. Staccano e sollevano con i picconi, come si fa per il ghiaccio, strati di sale che in certi posti hanno lo spessore di una spanna».
Non c’è posto per tutti, qualcuno deve fare i conti con la delusione provocata della mancata assunzione. Non si tratta, però, tanto di questo. Il problema principale sta nel sistema del cottimo che la Compagnia delle Saline impone alla manodopera. Non è un caso se il congresso dell’Internazionale socialista tenutosi cinque giorni prima a Zurigo avesse richiesto l’abolizione del cottimo e che nei giornali sindacali dell’epoca si potessero leggere frasi come queste: «Il cottimo dobbiamo combatterlo sempre e con ogni mezzo. L’operaio diventa alcolizzato poiché ha bisogno di procurarsi artificialmente energia, si logora e diventa prematuramente il vecchio che il padrone si affretterà a licenziare… Il cottimo è disumano perché l’operaio ha il solo scopo di produrre per guadagnare di più, senza dare peso al fatto che così toglie il lavoro ai compagni… È la peggiore forma di concorrenza tra lavoratori».
Le ricostruzioni dei fatti parlano per lo più di due campi: gli italiani, da un lato, e i francesi, dall’altro. Non è così. Le componenti sul terreno sono tre: gli abitanti della città, gli stagionali francesi e quelli italiani. Componenti, inoltre, decisamente articolate al loro interno: tra gli stagionali francesi vi sono, oltre ai contadini delle Cévennes cui abbiamo accennato, i trimard, nomadi ai margini della società e della legalità che sbarcano il lunario come possono; tra gli italiani prevale l’aggregazione regionalista: i piemontesi e i toscani, in particolare. La riaggregazione per nazionalità avverrà nel corso degli avvenimenti: i transalpini saranno messi tutti nello stesso sacco e colpiti con la stessa brutalità, mentre i francesi ricorreranno al concetto di nazionalità per cercare di legittimare la violenza di cui sono portatori. Gli operai vengono reclutati in loco da caporali (“bayles” in occitano) che li raggruppano in squadre, li portano nelle saline, si occupano della loro sussistenza (facendo – secondo un’accusa ricorrente – la cresta sugli acquisti) e, traendone profitto, rivendono le loro braccia a una Compagnia che non ne conosce neppure il nome, dal momento che i lavoratori vengono identificati soltanto da un dischetto di cartone sul quale figurano un numero e il nome del bayle.
I fatti cominciano il 16 agosto in una salina a otto chilometri da Aigues-Mortes, dove scoppiano risse tra trimard e italiani causate da rivalità dovute al cottimo. Nulla di grave, ma qualcuno corre in città a spargere notizie totalmente false che si coniugano col desiderio di vendetta. E il giorno successivo si scatenerà la caccia all’uomo al grido di “Morte agli italiani!” di cui abbiamo narrato due episodi. Alcuni francesi cadranno in preda alla follia omicida, altri fomenteranno la violenza dei primi o ne saranno compiaciuti spettatori, altri ancora cercheranno di proteggere le vittime (come il parroco che scriverà alla Tribuna: “un prete non può fare distinzione di lingua o di nazionalità”).
In Italia scoppierà immediatamente un’ondata di protesta che sarà cavalcata da Crispi e dalla parte più reazionaria della corte, portando alla caduta del governo Giolitti. In un momento in cui l’Esagono sembra ricompattarsi attorno ai valori identitari, si stenta a dare il giusto peso alle correnti populiste e xenofobe che agitano la cugina d’oltralpe (l’affaire Dreyfus è peraltro dietro l’angolo).
Soggiacente all’esasperazione nazionalista è una sorta di psicosi dell’invasione: lo straniero spinge da tutti i lati e conquista silenziosamente il Paese con il rischio che prima o poi nella vecchia Gallia l’elemento francese cessi di essere prevalente. Il pericolo dell’invasione è dalla stampa xenofoba prospettato come duplice: se la manodopera straniera “toglie il pane dalla bocca” agli operai autoctoni, essa rappresenta anche un antigene che attacca il corpo sano della nazione. Ecco alcuni esempi: “Gli italiani cominciano ad esagerare con le loro pretese. Presto ci tratteranno come un paese conquistato. Fanno concorrenza alla nostra manodopera e si accaparrano i nostri soldi a vantaggio del loro paese ”. Da qui l’invito a proteggere gli operai francesi da “questa merce nociva e peraltro adulterata che è l’operaio italiano” anche perché “l’’italiano non nutre nessuno e mangia da tutti”; è quindi necessario prendere provvedimenti “contro un’orda di affamati che a casa loro languiscono nella miseria”. Si agitano anche gli spauracchi dell’immoralità, della criminalità e della sicurezza dello stato: “La presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente: spesso questi operai sono spie, generalmente sono di dubbia moralità e il loro tasso di criminalità è elevato…”. Si può arrivare al punto di presentare gli italiani come “farabutti dal volto umano”. Calzante appare dunque la riflessione pubblicata all’epoca da Cesare Lombroso sul Figaro, che attribuisce “le atrocità commesse ad Aigues-Mortes” alla logica del branco – come diremmo oggi – alimentata dalle “continue e ripetute punture di spillo di politici ciechi che finiscono per generare odii che il fatto di essere stati creati artificialmente non rende meno virulenti”
Il processo durò quattro giorni, dal 27 al 30 dicembre 1893, si svolse in modo assai discutibile e si concluse con l’assoluzione degli assassini. Il giovane anarchico Sante Caserio, che aveva trovato rifugio a Sète, nel venire a conoscenza del verdetto prese la decisione di vendicare i lavoratori italiani uccisi per la seconda volta; non appena, nel giugno successivo, gli si presenterà l’occasione, si recherà a Lione per pugnalare il presidente della Repubblica francese Sadi Carnot.
Talvolta, durante le conferenze sul massacro che mi capita di effettuare, tra il pubblico c’è chi sostiene che la nostra emigrazione sia stata migliore di quella che riceviamo ai nostri giorni. Io leggo brani come quelli citati e tutto si fa più chiaro nella testa di chi ascolta. La storia sembra ripetersi senza aver insegnato nulla. Sappiamo bene che essa non si ripropone mai tale e quale (Guicciardini si serviva della metafora delle onde del mare che appaiono identiche, ma che in realtà non lo sono); le analogie con il presente sono tuttavia eloquenti: il ricompattarsi attorno alla dimensione etnica con la creazione dell’antagonismo “noi”/“loro”, l’emarginazione sociale e l’ignoranza quali brodo di cultura della violenza, la ricerca del capro espiatorio, senza dimenticare quei politici che soffiano sul fuoco del pregiudizio e della paura. Quanto basta per cercare di fare in modo che la storia insegni qualcosa.
Conosciamo l’identità di otto dei nove morti uffi¬ciali. Cinque sono piemontesi: Carlo Tasso, 58 anni, di Montalero (frazione di Cerrina Monferrato, in provincia di Alessandria); Vittorio Caffaro, 29 anni, di Pinerolo; Bartolomeo Calori, 26 anni, di Torino; Giuseppe Merlo, 29 anni, di San Biagio (frazione di Cen¬tallo, in provincia di Cuneo) e Giovanni Bonetto, 31 anni, del villaggio occitano di Frassino, in Val Varaita; un ligure, Lorenzo Rolando, 31 anni, di Altare (SV); un lombardo, Paolo Zanetti, 29 anni, di Nese (oggi frazione di Alza¬no Lombardo, in provincia di Bergamo); un toscano, Amaddio Caponi, 35 anni, di San Miniato (PI), che durante il viaggio di ritorno morì all’o¬spedale di Porto Maurizio.
Il nono cadavere non potrà essere identificato, così come il decimo seppellito in tutta fretta – clandesti-namente, si potrebbe dire – il 21 settembre, senza che ne venisse data comunicazione alle autorità italiane e che, come ho avuto modo di dimostrare, è con ogni probabilità quello di Secondo Torchio, 24 anni, di Tigliole (AT). Nei rispettivi comuni sono state poste due targhe che ricordano Merlo e Bonetto. Credo sia necessario ricordare anche le altre vittime (ad Altare, per esempio) e che sui luoghi del massacro venga posta una lapide che ricordi gli italiani e quei “Giusti” francesi che con il loro coraggio fecero sì che il bilancio non fosse ancora più grave.

di ENZO BARNABA‘ – autore di “Aigues-Mortes, il massacro degli italiani”, Ed. Infinito, 2015 e di “Mort aux Italiens!. 1893, le massacre d’Aigues-Mortes”, Editalie, Tolosa, 2012.
Su Facebook, cura questa pagina dedicata all’eccidio

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