Cecità, a rischio 115 milioni di persone nel 2050

Cambridge – I non vedenti potrebbero triplicare nei prossimi 35 anni, passando da 36 a 115 milioni entro il 2050. A diffondere la notizia è lo studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale, condotto da Rupert R. A. Bourne, dell’Anglia Ruskin University di Cambridge, e pubblicato sulla rivista The Lancet Global Health.

In realtà, lo studio dimostra che il numero delle persone con disabilità visive sarebbe in calo, ma è destinato ad aumentare con passare del tempo; se non verranno messe in atto strategie ad hoc per evitare la diffusione della malattia, il progressivo invecchiamento della popolazione farà si che il numero di persone affette da disturbi della vista aumenteranno in maniera significativa, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. La ricerca ha esaminato i dati di 188 paesi, analizzando i dati sui problemi visivi e sulla cecità dal 1980 al 2015: oltre 200 milioni di persone sarebbero risultate affette da problemi moderati o gravi agli occhi, ma rischiano di aumentare ulteriormente nel corso dei prossimi decenni, arrivando anche a superare i 550 milioni di malati. Anche senza perdere completamente la vista, infatti, un individuo può avere degli impatti molto difficili nella propria vita, come una riduzione della propria indipendenza e autonomia, magari dovendo rinunciare alla guida. Attualmente, la maggior parte di questi disturbi colpiscono le popolazioni dell’Asia meridionale e orientale e l’Africa sub-sahariana, mentre le percentuali diminuiscono nell’Europa Occidentale.

I ricercatori hanno sottolineato quanto sia importante effettuare degli investimenti maggiori per migliorare gli accessi alle cure ai pazienti che non possono permetterselo, soprattutto fornendo interventi di cataratta e occhiali idonei alle diverse problematiche per evitare il peggioramento delle condizioni. Secondo il direttore dello studio, infatti,  “Questi interventi forniscono alcuni dei maggiori rendimenti in rapporto al denaro investito. Sono alcuni degli interventi più facilmente realizzabili nelle regioni in via di sviluppo. Sono economici, richiedono poche infrastrutture e i paesi recuperano le spese sostenute perché le persone rientrano nella forza lavoro”.