Rubare per fame non è reato
Rubare per fame non è reato

Genova – Rubare per fame non costituisce reato. A stabilirlo la Corte di Cassazione che ha deciso che una persona che ruba al supermarket per sfamarsi, anche nel caso sia un comportamento ripeturo, non commette reato e non può essere punito.
La sentenza, che sta suscitando molte polemiche, arriva dalla Cassazione che ha annullato una condanna per un furto del valore di 4 euro di wurstel e formaggio.
La quinta sezione penale della Suprema corte della Cassazione ha infatti esaminato il caso di un giovane straniero che, a Genova, vive senza una fissa dimora.
Con la sentenza 18248/16 ha accolto il ricorso del procuratore generale della Repubblica, annullando completamente la condanna per furto inflitta dalla Corte di Appello di Genova.
La corte ha sancito che non è punibile chi, spinto dal bisogno, ruba al supermercato piccole quantità di cibo per “far fronte” alla “imprescindibile esigenza di alimentarsi”.
Il giovane aveva rubato alimenti per un totale di circa 4 euro ma era recidivo, aveva già commesso in passato lo stesso reato.
Un addetto alla sicurezza del supermercato lo aveva visto nascondere del cibo nelle tasche e lo ha fermato alla cassa.
Secondo il procuratore, un buon motivo per negare l’applicazione dell’articolo 131 bis Cp, vale a dire la non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Secondo la Suprema corte invece, il furto era stato commesso “per far fronte ad un’immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi agendo quindi in stato di necessità”.
La sentenza, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non solo ha tenuto in seria considerazione lo stato di bisogno che a volte induce le persone a rubare per sopravvivere ma anche caratterizza per la linearità dal punto di vista giuridico. Il furto, infatti, è stato commesso su cose di tenue valore per provvedere all’urgente bisogno di mangiare. Non è invece dato sapere, per il momento, quanto sia costato allo Stato italiano il procedimento giudiziario arrivato fino al terzo, e ultimo, grado di giudizio.