Secca della Meloria al largo di Livorno

Il 6 agosto del 1284, al largo di Livorno, presso le Secche della Meloria, Genovesi e Pisani si scontrarono in una delle più grandi battaglie navali del Medioevo. Non si trattò di qualcosa d’estemporaneo. Genova e Pisa, allora all’apice della propria potenza politica, economica e militare, giunsero alla battaglia dopo circa due secoli di continue lotte sui mari, combattute più con le armi della guerra anfibia e della guerra di corsa – depredando e razziando le coste altrui e assaltando i bastimenti nemici – che mediante scontri diretti.

La Meloria non fu altro che il punto d’arrivo di una atavica rivalità, centrata sul controllo delle principali rotte tirreniche – e, dunque, sulla necessità di garantirsi un sicuro vettovagliamento, in particolare granario, ma anche cospicue entrate daziarie dai porti sottoposti al proprio controllo –; ma anche d’una serie di rivolgimenti del quadro euro-mediterraneo – dalla caduta dell’Impero Latino di Costantinopoli, all’ascesa della potenza angioina, allo scoppio della guerra del Vespro, ai mutamenti delle principali rotte di commercio – capaci d’imprimere un’accelerazione a dinamiche in atto da tempo.

Secondo le cronache, la causa scatenante del conflitto andrebbe ricercata nelle ambizioni d’un signorotto còrso: un certo Sinucello della Rocca, giunto a edificare un castello nel territorio di Bonifacio, allora possesso genovese. Alla richiesta di smantellare la costruzione, questi avrebbe chiamato in causa i Pisani, ottenendone l’appoggio incondizionato. In realtà, al centro del contendere v’erano questioni più ampie, quali la necessità di controllare, più che la Corsica meridionale, la Sardegna stessa e, con essa, le più ampie rotte mediterranee.

La rivalità tra Genova e Pisa riguardava, innanzitutto, il Tirreno: il giardino di casa di entrambe; ma si estendeva a ogni angolo del Mediterraneo attraverso lo strumento della guerra di corsa. In particolare, il Mediterraneo orientale vide Genova, Pisa e Venezia scontrarsi per il controllo commerciale del litorale crociato. In particolare ad Acri, la capitale del regno latino di Gerusalemme. Gli interessi erano prettamente economici tanto che si è voluto vedere in questo primo conflitto che vide coinvolte tutte e tre le principali città marinare del tempo, scoppiato nel 1256-1257, una sorta di “guerra coloniale”. In realtà, non è possibile applicare categorie odierne a uno scontro che possedeva sì motivazioni similari ma che si giocava su piani diversi da quelli del “colonialismo” otto-novecentesco. Certo, non è un caso se le colpe d’un evento parallelo alla guerra in corso tra Pisa e Genova – la caduta di Acri, nel 1291 – sia stato legato dai contemporanei a quanto contemporaneamente accadeva in Occidente. Gli “Italiani” in genere furono ripetutamente annoverati tra i principali responsabili della perdita della Terrasanta.

La strategia crociata inaugurata nel corso del concilio di Lione del 1274 – quella del passagium particulare, e, cioè, dell’invio nel Levante di piccole spedizioni condotte da professionisti della guerra –, assegnava loro un ruolo importante, accompagnandosi all’idea d’una “guerra economica” ai danni della potenza mamelucca: una crociata generale avrebbe avuto successo solo a seguito del collasso dell’economia egiziana. Si trattava, tuttavia, di disposizioni difficili da mettere in pratica. Di fatto, regolarmente disattese. Di qui la definizione di «mali christiani», appioppata loro dal frate minore Fidenzio da Padova e la loro esclusione da qualsivoglia moto di riconquista.

Il Medioevo di cui stiamo parlando, dunque, è un Medioevo marittimo e navale; legato a quell’apertura dei traffici successiva al Mille che ha meritato l’espressione di “rivoluzione commerciale”. Un Medioevo «degli orizzonti aperti», secondo la celebre definizione di Roberto Sabatino Lopez, che conobbe le prime forme di globalizzazione. Un processo, questo, che vide Genova e Pisa protagoniste, e che raggiunse il culmine al tempo della Meloria. Se a partire dal X-XI secolo, entrambe le città erano andate assumendo un importante ruolo di raccordo nell’ambito dell’economia-mondo mediterranea, nel Duecento, siamo, ormai, di fronte a centri decisionali e direzionali di primaria importanza. Per buona parte del Duecento, i Pisani seguitano a mantenersi in Terrasanta – ad Acri e a Tripoli –, serbando, inoltre, una certa preponderanza nei porti del Maghreb: nel 1264, l’emiro di Tunisi concede loro d’ampliare il proprio fondaco; pare, inoltre, che, nel 1271, il porto di Bijāya fosse frequentato da pochi altri mercanti occidentali.

Al pari dei Genovesi, inoltre, sfrutteranno le possibilità aperte dal ritorno di Costantinopoli in mano ai Greci, nel 1261 – dopo un sessantennio di dominazione veneziana –, per penetrare nel mar Nero: nel famoso trattato di Ninfeo, stretto tra Genova e Michele VIII Paleologo in previsione della riconquista della città sul Bosforo, i Pisani sono definiti «fideles imperii». Non pare affatto strano, dunque, che in fondo al mare d’Azov esistesse una località chiamata “Porto Pisano”. Ecco: è questo il «Medioevo degli orizzonti aperti».

Si parla tanto, oggi, di «global history». Con Genova, Pisa e Venezia il piatto è servito. Certo, tra le città in lotta – e tralascio, per il momento, Venezia – v’erano profonde differenze. Se Genova possiede chiaramente i caratteri della “città-porto”, Pisa, invece, benché dotata d’un più che rispettabile sistema portuale, è, piuttosto, una “città con porto”. A Genova, la compenetrazione tra le strutture portuali e la crescita del manufatto urbano – con i fondaci e le volte che s’insinuano in profondità nell’abitato, e gli approdi legati a singoli casati – è qualcosa di profondo e tipizzante.

È il mare a modellare la città. Pisa, invece, è una città fluviale, dotata sì d’un avamporto lungo l’Arno e d’un porto marittimo vero e proprio – Porto Pisano, situato nei pressi dell’attuale Fortezza Vecchia di Livorno –, ma sviluppatasi autonomamente, senza che il tessuto urbano ne fosse sagomato. La darsena, collocata nei pressi della chiesa di san Nicola, fungeva sì da luogo di carico e di scarico delle merci, senza incidere, però, sulla crescita e la strutturazione dell’abitato. Con ciò, non voglio, certo, dire che le mancassero i caratteri della città di mare. Tutt’altro. A renderla tale erano, oltre agli arsenali, le strutture commerciali, legate al trasporto marittimo, e la collocazione all’interno delle mura di funzioni, quali quella doganale, tipicamente portuali. Tuttavia, le differenze tra le due città sussistono. Ed è a partire da queste differenze che mi è possibile spiegare parte dell’andamento del conflitto.

Di fatto, alla Meloria si scontrarono due opposte concezioni della guerra navale: maggiormente legata alle tecniche della guerra di terraferma, quella pisana, che prevedeva l’uso di galee corazzate – dunque, più lente negli spostamenti – e di arcieri, invece che di balestrieri; decisamente più innovativa, caratterizzata da rapidità di manovra, quella genovese (basata, forse, sulla maggiore esperienza dei suoi ammiragli), che prevedeva l’uso di balestrieri, i cui verrettoni risultavano ben più micidiali delle frecce nemiche. Oltre a ciò, pare che i Genovesi vestissero alla leggera; a differenza dei Pisani, avvolti in pesanti corazze di cuoio che ne rendevano difficili gli spostamenti. La lunga attesa che precedette lo scontro risultò fatale. I Pisani uscirono dal porto dopo il mezzogiorno, dopo essere rimasti per ore sotto il sole agostano, armati pesantemente; e ciò, a differenza dei Genovesi, che – secondo la Cronaca del Templare di Tiro – «tutto il giorno restarono senza armi, freschi e riposati». Oltre a ciò, è proprio in questo periodo che le galee genovesi iniziano a imbarcare equipaggi più numerosi mediante l’introduzione del terzo uomo per banco, che permette al legno di guadagnare in velocità. Insomma: ci troviamo al crocevia d’una serie di mutamenti: sia nel naviglio, sia nell’affermazione di tecniche di guerra maggiormente efficienti, che ho cercato di descrivere nel libro, le quali influenzeranno i conflitti successivi sino alla nuova, grande innovazione: l’introduzione delle armi da fuoco.

Le conseguenze furono molteplici. In passato si tendeva ad attribuire agli esiti infausti della battaglia un mutamento strutturale dell’economia pisana, costituito dall’abbandono generale della navigazione in favore d’un ripiegamento verso le attività di terra. Ora, se la reale consistenza di tale mutamento è ancora dibattuta, certamente non è più possibile attribuirne le cause alla Meloria. Semmai, a dinamiche complesse e di lungo periodo, innestantesi su molteplici fattori. Penso, ad esempio, al rapporto con gli altri agglomerati urbani dell’interno – in particolare, con Firenze e Lucca –, alla predilezione per determinate tipologie di merci, ma anche alla progressiva assunzione da parte di alcune società di mercato, generalmente a base familiare, di formule “aziendali”.

In effetti, il fatto nuovo nell’economia pisana due-trecentesca è costituito dal sorgere di compagnie bancarie e mercantili dal sapore squisitamente fiorentino, dotate di basi e postazioni in tutto il Mediterraneo, capaci di garantire alla città una discreta vivacità economica per buona parte del Trecento. E oltre, nonostante la conquista fiorentina del 1406. Nell’immediato, sia Pisa, sia Genova conobbero una serie di cambi di governo. I lunghi anni di guerra ebbero effetti importanti sull’assetto politico e istituzionale, con l’affermarsi di chiari tentativi d’affermazione personale; a mio avviso, strettamente legati allo stato emergenziale dovuto alla guerra e, dunque, alla necessità di concentrare il potere in poche mani. Senza dubbio, la Meloria non segnò l’arretramento definitivo della presenza pisana sul mare. I Genovesi dimostrarono la propria superiorità navale, vincendo la guerra e la battaglia. E ciò a causa della maggiore esperienza dei propri ammiragli, di cui Benedetto Zaccaria rappresentava l’esempio più fulgido; ma anche del più avanzato affinamento dell’arte marinaresca. Pisa, tuttavia, mantenne una certa capacità di sviluppare una micidiale guerra di corsa. Nonostante la crisi demografica dovuta alle migliaia di prigionieri reclusi nelle carceri genovesi, si rialzò in fretta, sfruttando il novello impegno genovese contro Venezia, che avrebbe occupato buona parte degli anni Novanta del Duecento.

La Meloria, a ogni modo, fu un fatto grave. Ma i traffici ripresero. I Pisani seguitarono a guardare alla Sicilia, al Maghreb e a mantenersi in Sardegna, nonostante l’investitura del Regnum Sardinie et Corsice a Giacomo II d’Aragona, occorsa tra il 1295 e il 1297, promossa da papa Bonifacio VIII. Semmai sarebbe stata la successiva perdita dell’isola, tra il 1324 e il 1326, a segnarne la decadenza come potenza mediterranea e a spingerla a guardare verso l’interno. Con ciò, la memoria della Meloria sarebbe durata a lungo. Genova avrebbe celebrato la vittoria mettendo in bella mostra le catene di Porto Pisano, sottratte tra il 1287 e il 1290. Restituite nel 1860. Anche se solo in parte poiché si narra che ancora oggi, a Moneglia nel levante ligure (la cittadina inviò navi in battaglia) e a Murta, quartiere dell’immediato entroterra genovese, pare si trovino ancora custoditi alcuni anelli mai restituiti. Curiosamente, però, non è mai stata fatta alcuna verifica per garantirne l’autenticità o meno e per sciogliere una volta per sempre il curioso mistero.

informazioni tratte dal libro “1284. La battaglia della Meloria” di Antonio Musarra, edito da Laterza nel 2018 

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